Nonprofit e privati: quando nuove strade diventano necessarie

In un mio commento ad un recente articolo del consigliatissimo blog di Riccardo Friede ho espresso il mio parere su un problema complesso riguardante il terzo settore.

L’opinione diffusa che il nonprofit non sia un settore lavorativo che ha bisogno di una sempre più elevata professionalità ma un campo aperto in cui ci si debba muovere prevalentemente secondo gli schemi del volontariato.

Tale percezione è un danno permanente per chi opera nel terzo settore e a volte può essere frustrante. Nel mio intervento ho identificato i tre principali fattori alla base di questa situazione:

  • Politica debole di informazione e sostegno intorno al mondo nonprofit da parte delle istituzioni.
  • Idea di intervento per l’inclusione sociale basato sulla carità.
  • Scarso investimento in innovazione, comunicazione e raccolta fondi da parte delle stesse organizzazioni nonprofit.
Graffiti favelas
Consiglio a tutti di approfondire la questione leggendo l’articolo e non voglio ripetermi sulla questione. Quello che qui mi interessa è approfondire il terzo punto proponendovi un esempio pratico che ho avuto modo di conoscere durante una mia recente missione in alcune favelas brasiliane.

Il nonprofit non può più adagiarsi sugli allori

Non sono l’unico a dire che il settore non profit italiano è molto vincolato a politiche di welfare sempre più in crisi. Da una parte le sempre più limitate risorse pubbliche a disposizione delle politiche sociali vanno a colpire in pieno le entità del privato sociale che, quotidianamente prestano i propri servizi a favore della comunità e delle istituzioni; dall’altro la spinta verso la creazione di nuovi servizi capaci di rispondere alle mutate condizioni della società, rispetto anche solo a 20 o 30 anni fà, è spesso limitata a causa dei pochi investimenti in capitale umano e innovazione.

Lavorando quotidianamente con diverse entità non profit, posso dire che resiste ancora una sorta di repulsione verso approcci organizzativi più vicini a meccanismi tipici del settore privato. Come se un qualsiasi buon progetto che rientri nel campo dei servizi sociali o degli interventi a favore di chi vive ai margini, non abbia dirittto ad essere realizzato se non con l’intervento pubblico.

Tolte le grandi realtà del non profit, le ong internazionali che operano in Italia e pochi altri pionieri, concetti come quello di responsabilità sociale di impresa o pratiche ormai imprescindibili come quella del fundraising rimangono spesso dei tabù o delle attività assolutamente secondarie per moltissime organizzazioni nonprofit.

Tutto ciò limita lo status delle organizzazioni nonprofit agli occhi dell’opinione pubblica, non consente di andare oltre il legame, pur importante, con gli enti pubblici e impedisce una naturale spinta verso l’innovazione. Ad aggravare la situazione la cronica scarsezza di fondi: una cooperazione internazionale allo sviluppo con bilancio ormai ridottissimo; i comuni con sempre meno risorse; la crisi economica che batte, inquietante, alle porte.

Certo non è semplice uscire da problemi di questa portata. Sono convinto, però, che molte organizzazioni nonprofit avrebbero la possibilità di studiare e avviare nuove pratiche, valorizzando il territorio e identificando i soggetti con cui può esistere maggiore sintonia. Il risultato potrebbe essere, per esempio la nascita di alleanze con realtà del settore privato al fine di portare avanti nuovi progetti per il bene comune.

Alleanza nonprofit e privato: un esempio dal Brasile

Come vi dicevo poco fà, ho recentemente conosciuto da vicino il grande lavoro che l’ong brasiliana Grupo Cultural AfroReggae (tra le principali realtà del nonprofit brasiliano) sta portando avanti insieme al Banco Santander. Si tratta di una vera e propria alleanza che, seguendo i princìpi della responsabilità sociale di impresa, ha portato alla nascita di nuovi progetti a favore di migliaia di abitanti delle favelas carioca.

L’ultimo nucleo comunitario avviato da AfroReggae nella favela di Vila Cruzeiro è stato finanziato dal Banco Santander. Il video seguente racconta l’iniziativa ed è stato girato in occazione dell’inaugurazione del Nucleo.

Si tratta di una struttura aperta liberamente alla comunità, in cui si tengono corsi di lingua, musica, danza e arti figurative. Ancora una volta la cultura è l’asso nella manica per una lotta alla povertà, al disagio sociale e alle dinamiche di conflitto e devianza (non è mai ripetitivo dirlo!).

Nucleo AfroReggae di Vila Cruzeiro
Questo progetto, come molti altri, è possibile grazie a delle salde alleanze con il mondo privato che permettono di beneficiare moltissime persone. I soggetti privati con cui AfroReggae si allea diventano ufficialmente patrocinatori istituzionali per l’arco di più anni (recentemente Banco Santander e Afroreggae hanno rinnovato l’accordo per ulteriori tre anni).

Nucleo AfroReggae di Vila Cruzeiro
Insieme al nucleo gestito da AfroReggae è stata anche inaugurata una nuova agenzia del Banco Santander, la seconda aperta dentro una favela a Rio de Janeiro. Da un lato è interesse della banca trovare nuovi clienti tra gli abitanti delle favelas (il cui reddito sta crescendo da qualche anno); dall’altro l’apertura di una banca è un riconoscimento agli abitanti delle favelas stessi, storicamente fuori dall’economia formale e spesso accusati ingiustamente di parassitismo dai cittadini più abbienti. L’idea è quella di abbinare i classici servizi bancari con dei servizi di utilità sociale per gli abitanti della favela.

Con un accordo di questo tipo sembrano beneficiarsi tutti:

  • La comunità locale ha a disposizione uno spazio culturale dove far formare i propri giovani;
  • L’ong può portare avanti nuovi progetti e impiegare nuove risorse;
  • La banca può inserirsi nella comunità prestando i suoi servizi oltre che godere di una pubblicità positiva sul territorio;
  • La città guadagna un tassello nel panorama dei servizi socio-educativi e vede ridurre gli indici di violenza.

In conclusione: le strade sono infinite e almeno una è quella giusta

Per concludere e tornare all’inizio del mio ragionamento: non tutti i problemi del nonprofit vengono da fuori. Alcuni (tra quelli più gravi) hanno la radice all’interno.

Il mondo e la società in cui ci siamo organizzati cambiano e non si può pensare di restare appiccicati per sempre come un mollusco allo stesso scoglio. Impariamo a guardare oltre, a trovare nuove modalità per migliorare il mondo in cui viviamo.

Investiamo in formazione di qualità, miglioriamo la nostra capacità di dialogare con il territorio, studiarlo e interpretarlo, impariamo a raccontarci, rinfreschiamo il nostro stile, troviamo nuovi amici. Le strade sono infinite: basta imboccare quella giusta!

Ricordate sempre che potete seguirci su Twitter @baleiaorg. Se volete potete anche seguirmi direttamente @simone_apo.

Un abbraccio a tutti.

Simone Apollo

Simone Apollo - Sociologo esperto di America latina, cooperazione internazionale, fundraiser e specialista di SEO e web-marketing per il non profit.

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6 Commenti
  1. Come non darti ragione? Esempio interessante quello brasiliano. Condivido in pieno il tuo pensiero che esprimo in modi diversi sul mio blog. Giusto oggi ho pubblicato un ulteriore post a tal proposito e al quale rimando te e i tuoi lettori. Se vorrai naturalmente.
    Grazie Simone e buon lavoro.
    Elena

    • Grazie a te Elena. Leggerò con calma il tuo nuovo post che per ora ho solo aperto rapidamente. Leggendo già solo il titolo, però, credo di poter dire che la pensiamo allo stesso modo: due mondi che per definizione dovrebbero combaciare perfettamente sono in realtà troppo distanti.

      Un caro saluto, Simone

  2. Caro Simone,
    per come la vedo io, l’idea di partnership profit-non profit in Italia:

    1) verrà guidata dal profit per le scelte che prenderà di volta in volta in autonomia: faccio filantropia, faccio filantromarketing, faccio marketing e fingo di fare anche filantropia? A chi mi rivolgo per attuare il piano?

    2) sarà slegata, almeno nel medio periodo, da una concertazione utile p.a. – profit – non profit. Tutti e tre in grado di rilevare bisogni, nessuno capace di interagire con l’altro per trovare soluzioni sistemiche, anche in territori ristretti. E in questo senso il profit verrà chiamato a intervenire o interverrà autonomamente per chiudere piccoli vuoti, indicati da esigenze molto (troppo) particolari.

    3) considererà il non profit un braccio operativo. Il profit crede che il non profit sia un degno alleato e cooprotagonista oppure qualcuno a cui elargire un certo sostegno per fare quel che viene indicato dall’impresa?

    Quindi, sintetizzando: vedo una csr genuina orientata dentro l’impresa (il che secondo me è ottimo) e una csr ancora molto “caritatevole” verso il non profit e rispetto la quale il non profit preferisce ancora e comunque ragionare in termini di “dammi quel che mi serve” piuttosto di “facciamo qualcosa assieme”.

    Ma, stiamo parlando allora di csr e partnership tra due settori?

    Le cose più notevoli in giro le possiamo carpire dal mondo delle fondazioni di comunità, dove un ente misto privato/pubblico individua bisogni e concerta gli sforzi, ma la logica più che di crescita sistemica mi pare in genere di tamponamento di povertà. Ma forse questa è la naturale conseguenza del vivere in un paese che sta vivendo una regressione anziché un pur disordinato e difforme sviluppo come il Brasile.

    Grazie della tua ottima riflessione, un saluto e a presto!

    • Caro Riccardo,

      grazie per il tuo intervento. Alla fine sembra che ci si trovi sempre allo stesso punto: un’economia nonprofit poco valorizzata e con poca autostima che, nel caso della CSR, rischia di perdere un treno importante.

      Quando scrivi di un nonprofit che dice “dammi quel che mi serve” credo che sintetizzi al meglio l’approccio di cui parlavo anche nel tuo post di pochi giorni fa (leggetelo tutti, il link è all’inizio di quest’articolo!).

      Chiaramente questo non è l’unico problema e molto dipende anche dalle condizioni esterne (sicuramente l’Italia non è il Brasile in questa fase storica). Ma nel cercare di rafforzarsi, di creare nuovi servizi, di avviare nuovi progetti che insieme siano tasselli del welfare, della cultura, dell’educazione dello sviluppo sostenibile (accanto e intersecandosi alle politiche pubbliche, ovviamente) da dove partire se non da noi stessi?

      Un abbraccione e a presto, Simone

  3. Accidenti, ma non mi ero mai accorto del blog di Simone!!! Mea culpa……
    Allora: innanzitutto è un piacere atterrare qui.
    Sul tema profit non profit, io credo che ci sia un vizio teorico e concettuale all’origine (magari i vizi sono di più….).
    Intendo dire che il concetto di responsabilità sociale di impresa è tutto imperniato su un approccio di tipo eticistico ossia costruire un profilo morale dell’azienda. In qualche modo le aziende sentono che il mondo sceglie un parametro in più per valutarle e riguarda il loro comportamento etico. A questo punto le aziende dicono che accanto al profilo di business (per il quale è amesso tutto) ci vuole un profilo etico che controbilanci l’inevitabile immagine negativa prodotta dalle dinamiche del profitto. Interessante, sì, ma molto molto debole da un punto di vista strategico. Infatti il tema centrale nel pensiero della CSR è stato sempre quello di reputazione. Che vuol dire quello che gli altri pensano di me. Mentre invece il tema centrale doveva essere la coscienza, ossia quello che io penso debba essere l’azienda. Per cui la CSR è sempre stata in qualche modo strumentale e funzionale a mantenere il business. Tutto ciò è lecito (non voglio fare il moralista!!) ma è molto poco strategico per le aziende. Le aziende pensano che con la reputazione si possa aggiustare tutto (ecco perchè si fa ancora tanta carità con la CSR) mentre nella realtà questo è vero. Chiariamo il concetto: tutti sono contenti che Unicredit dia soldi per lo sviluppo di nuove idee dei giovani. Questo non vuol dire che io non pensi che Unicredit sia stata una banca molto bastarda nel vendere i derivati ai comuni italiani che adesso ne pagaheranno le conseguenze per anni e anni. La reputazione non viene prodotta con operazioni caritatevoli. Non lo è stato mai neanche in passato. Questa impostazione ha portato le aziende a creare un lato A e un lato B della propria verità. Il lato A è quello del business, che guarda ai proprietari e agli azionisti. E il lato B guarda (o meglio si fa guardare) dalla comunità. La CSR viene messa sul lato B e non deve rompere le scatole al lato A. Questa è una delle ragioni della crisi (finalmente!!!!!) della CSR. Il fatto è stato messo bene in evidenza da Elena Zanella in un recente post. (Grazie Elena). Oggi si parla di Social Innovation. Ho qualche timore che anche questa diventi una sigla nuova per fare quello che le aziende fanno da secoli: regalare un piatto di lenticchie alla società per continuare a mangiare lauti pranzi a casa propria. Ma almeno questo cambiamento ha la capacità di far crollare il castello di sabbia della CSR, fatto di tanta retorica, tanta chiacchiera e pochi fatti. Soprattutto in Italia.
    Il caso Santader AfroReggae invece mette in evidenza cosa succede quando l’Azienda mette la CSR sul lato A e non sul lato B. Quindi ha fatto bene Simone/Baleia a raccontarcelo. E non è un caso che questo avvenga in paesi non tradizionalemnte ricchi ma in crescita. Perchè in questi paesi la crescita è dovuta nascere anche e soprattutto come risposta a condizioni sociali inaccettabili e non come mera creazione di benessere economico (come successo negli anni 70-80 nei paesi europei dove lo sviluppo è coinciso con la finanziarizzazione delle aziende e con l’arricchimento dei ricchi. Una ultima nota. Se vogliamo tirare fuori dall’impegno dalle aziende il meglio per il sociale, piuttosto che rincorrere il pensiero molto semplicistitico anglosassone che ha portato alla CSR io consiglierei di rivedere l’azione dei nostri Beda, Olivetti, Pirelli (e tanti altri) che negli anni 50-60 hanno fatto impegno sociale senza andare a scomodare certficazioni, sigle e reputazioni varie. Sono stati tra i protagonisti della crescita sociale dell’Italia. Direi che quelli sono casi di eccellenza.
    Buon lavoro a tutti

  4. Massimo,

    ti ringrazio per questo tuo importante contributo che ci fa riflettere per bene sul rapporto CSR-Fundraising e su cosa sia e quale funzione abbia la CSR.

    Grazie, poi, per averci ricordato dei nostri imprenditori illuminati di qualche decennio fà, che chiamare pionieri forse è riduttivo.

    Un abbraccio, Simone