Fotografia sociale e comunicazione nonprofit: 11 domande a Molo7 Photo Agency

La fotografia è molto potente. Sembra banale da dire ma questo mezzo di comunicazione che risale al XIX secolo è ancora uno dei sistemi più efficaci per veicolare un messaggio. Cambiano i supporti ma ciò che viene offerto agli occhi è sempre la stessa cosa: un’immagine che racconta qualcosa che non abbiamo realmente davanti agli occhi e ce la fa conoscere, immaginare, reinventare. Invita all’approfondimento e all’allargamento delle nostre vedute.

L’immagine fotografica funziona e lo sanno bene, tra gli altri, i nostri ormai onnipresenti social networks (è forse un caso se Facebook spende una montagna di soldi per acquistare Instagram?).

Detto ciò abbiamo voluto chiedere a degli esperti del settore cosa può fare la fotografia per il settore non profit e ci siamo rivolti ad Ilenia Piccioni e Antonio Tiso, fotografi fondatori di Molo7 Photo Agency, rinomata agenzia fotografica con sede a Roma. I suoi fotografi si dedicano principalmente a reportage sociali. Attenti ai diritti dei dimenticati, hanno prodotto lavori sulle condizioni di vita nella carceri psichiatriche italiane, hanno raccontato la segregazione a cui è sottoposta la comunità apolide del Kuwait, hanno ritratto gli sfollati della Colombia in fuga dalla violenza.

I lavori di Molo7 sono stati esposti presso gallerie e festival e pubblicati sulle principali testate giornalistiche italiane e internazionali. Nel tempo l’agenzia ha stretto rapporti di fiducia e collaborazione con organizzazioni e onlus come Amnesty International, UNHCR, Terres des Hommes, Libera, Un Ponte Per, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Enel Cuore Onlus, Fondazione Santa Lucia, Upter Solidarietà.

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Intervista a Molo7 Photo Agency

Ecco la ricca e interessante intervista che ne è venuta fuori. Tutte le immagini contenute nell’intervista sono prodotto del lavoro di Molo7 Photo Agency.

Che funzione ha la fotografia nel raccontare il non profit?

“La qualità e la serietà dei progetti sono il primo dovere per ogni organizzazione, ma è importante curare la comunicazione e l’immagine. Il reportage fotografico e i prodotti multimedia sono strumenti immediati, dinamici, sempre più impiegati dalle organizzazioni per creare memoria visiva dei progetti che portano avanti”.

Le immagini sono ancora uno strumento forte per fare campaigning nel sociale?

“L’immagine è la base della comunicazione. Le parole sono importanti per veicolare pensieri e concetti di una campagna non profit, ma hanno bisogno di fotografie che catturino l’attenzione. Viviamo in un’epoca dove ogni giorno riceviamo milioni di informazioni, tramite i media e il Web. Per nessuno è facile districarsi in questo mare magno. Uno scatto significativo può riassumere il senso di una campagna meglio di tante parole, attirando potenziali sostenitori”.

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Quanto è importante la fotografia sociale nel web marketing per il non profit?

“Le immagini sono fondamentali. Possono essere impiegate sia sul Web che off-line, per esempio mandando lettere ai sostenitori, oppure con campagne a mezzo stampa o televisivo”.

Presentare bene i propri progetti è importante per una organizzazione non profit?

“Far conoscere le proprie attività con un lavoro di documentazione curato è fondamentale. Rende le organizzazioni trasparenti e guadagna loro credibilità e fiducia. Nicoletta Ianniello, che per il Cesvi cura il rapporto con i fotografi, ci diceva tempo fa: – È inutile nascondere le criticità e le difficoltà di un progetto. Vogliamo mostrare con realismo l’impegno e il lavoro che portiamo avanti. È una questione di trasparenza. Far circolare le prove documentali del nostro lavoro sul campo ci aiuta a trovare nuovi sostenitori; ci permette di promuovere conoscenza e sensibilizzazione riguardo i temi su cui siamo attivi“.

Che consigli date alle organizzazioni non profit che vogliono fare un racconto fotografico dei loro progetti?

“La cosa migliore è affidarsi a fotoreporter professionisti con l’anima sociale, capaci di entrare in connessione con la storia e il progetto che andranno a raccontare. Spesso sono i volontari o i lavoratori delle organizzazioni, appassionati di fotografia, a produrre la documentazione fotografica di un progetto, ma per quanto ci mettano impegno, il risultato non potrà essere adeguato. Se un’organizzazione vuole produrre un racconto fotografico incisivo e utile per i suoi intenti fa bene a crearsi una rete di professionisti disponibili a collaborare”.

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Che passi bisogna fare per migliorare la comunicazione con le immagini nel non profit?

“In generale non amiamo molto la comunicazione un po’ pesante di alcune organizzazioni, che utilizzano ancora immagini di bambini africani con le mosche in faccia. Naturalmente non si può far finta che i problemi non esistano, ma ci sembra più positivo porre l’attenzione sulle soluzioni che le organizzazioni possono offrire per risolvere i problemi. È sempre Nicoletta Ianniello del Cesvi a raccontarci che: – Una foto scioccante può produrre una donazione d’impulso ma poi si spegne se dietro alla campagna non c’è un’informazione a tutto tondo. C’è una differenza sostanziale tra elemosina e solidarietà, per questo le organizzazioni più serie preferiscono donatori maturi e consapevoli che le seguiranno nel tempo“.

Un’agenzia come la vostra che cosa può offrire a un’organizzazione non profit?

“I fotografi di Molo7 hanno maturato negli anni una corposa esperienza sul campo: in Colombia tra gli sfollati col Cisp, in Kuwait tra gli apolidi insieme ad Amnesty International, in Italia tra gli atleti disabili del nuoto presso la Fondazione Santa Lucia. Ogni incontro ci ha plasmato, ci ha arricchito umanamente, ci ha lasciato in dote strumenti per fare meglio il nostro lavoro. La differenza tra un fotografo improvvisato e un professionista sta nella capacità di modulare un racconto, producendo al tempo stesso immagini capaci di attrarre visivamente lo spettatore e lasciargli una traccia, un’impronta, un dubbio. Ma naturalmente l’esperienza non è tutto. Credo che noi, prima di essere fotografi, siamo cittadini che sognano una società più giusta, a misura d’uomo, rispettosa dell’ambiente. Questo è il motivo per cui ci immergiamo in profondità nei lavori che seguiamo”.

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Volete raccontarci una vostra esperienza in fotografia sociale o con il non profit?

“Lo scorso anno, insieme all’associazione romana La Primula, abbiamo organizzato un laboratorio fotografico rivolto a ragazzi disabili di periferia. L’esperienza ha permesso ai partecipanti di riscoprire i luoghi della loro quotidianità, fissando in immagine ciò che li colpiva. Ne sono nati una serie di racconti intimi e personali sulla vita di Centocelle. Questo lavoro è stato utilissimo a vari livelli: innanzitutto per i partecipanti al laboratorio, per la loro sfera sociale e creativa. Poi per le famiglie e i volontari che attraverso le foto hanno ricevuto nuovi strumenti per capire il mondo interiore dei loro ragazzi. Ora questa esperienza è divenuta mostra e siamo orgogliosi che sia stata invitata dal Perugia Social Photo Fest a partecipare insieme ai lavori di altri artisti italiani e internazionali”.

La fotografia deve porsi dei limiti nel mostrare le disgrazie del mondo anche a fini di solidarietà?

“Questa è una domanda a cui ogni fotografo darà una risposta personale. Per noi è importante il modo in cui avviciniamo un soggetto in difficoltà e ne raccontiamo la storia. Un limite che ci diamo è non offendere la persona che fotografiamo, non vogliamo che qualcuno resti turbato, si senta umiliato. È importante sempre il rispetto della dignità umana, a prescindere dalla situazione in cui una persona può trovarsi. Abbiamo mostrato fotograficamente i segni della tortura fisica e mentale, la violenza e la depressione, ma ogni volta lo scatto è nato da un incontro, da un atto di fiducia. Come spirito siamo molto lontani dall’assalto frontale e morboso dominante tra i media. Ma come testimoni della realtà abbiamo il dovere di raccontare gli eventi della storia e le disgrazie umane, specie se il nostro lavoro può contribuire a generare cambiamenti positivi”.

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Utilizzare immagini stereotipate come quelle dei bambini africani sulla carta o sul Web è di cattivo gusto o è una leva per aumentare le donazioni?

“Personalmente non amiamo quel tipo di immagini. Fanno parte di un immaginario vecchio, pietistico. Non aiutano a focalizzare l’attenzione sui problemi da risolvere, ma attivano pregiudizi e indifferenza. Per mettere in luce un tema servono immagini che inducano all’ottimismo, che trasmettano il segno: – Sì, insieme possiamo cambiare le cose! Naturalmente, per una campagna riuscita, servono idee e creatività, altrimenti come possiamo raggiungere persone subissate quotidianamente di informazioni, immagini e voci? Nicoletta Ianniello poi, nella sua esperienza, ci spiega che valuta di volta in volta la tipologia di media dove una campagna uscirà e l’audience a cui si rivolgerà: – I parametri cambiano se si tratta di una comunicazione destinata al Web, ai giornali o all’editoria. Bisogna poi tener conto se i destinatari sono adulti o bambini, se sono persone istruite o un pubblico di massa. Quando si pubblicano libri, per esempio, si possono usare foto più difficili, meno immediate, sapendo di rivolgersi a un pubblico di adulti sensibile e mediamente istruito che va alla ricerca di foto di contesto oltre che d’impatto”.

Un immagine può cambiare il mondo?

“Ci piace l’idea che possa farlo, ma siamo consci che la realtà è complessa e i cambiamenti sono lenti, comportano fatica, impegno; tante difficoltà intercettano i nostri sogni. Ma una buona immagine può emozionare e indurre a riflettere, qualche volta consapevolmente, più spesso a livello inconscio, come qualcosa che ci cambia dentro e solo a distanza di tempo ce ne accorgiamo. Ci sono certamente immagini che rimangono nell’immaginario collettivo, suscitando riflessioni o aprendo finestre di approfondimento. Questo è un risultato importante.

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A volte poi accadono fatti che ti inducono un grande senso di speranza: anni fa pubblicammo su Epolis la storia di un poeta dialettale romano che viveva in condizioni disperate: respirava con la bombola d’ossigeno e poteva permettersi soltanto l’affitto di un umido garage a Ostia. Cucinava con il fornello a gas da campeggio col rischio di saltare in aria ogni giorno. Erano anni che chiedeva l’assegnazione di un alloggio popolare, ma i servizi sociali lo ignoravano. Il giorno in cui uscì il servizio, ricevemmo una chiamata. Era mezzogiorno. Una donna si presentò come la segretaria del Presidente dell’VIII Municipio. In metro, poche ore prima, era rimasta colpita dalla storia. Giunta in ufficio aveva bussato alla porta del suo capo: – Legga qua, dotto’, dobbiamo fare qualcosa per questo poeta! Non possiamo lasciarlo morire in un garage. Due mesi dopo il Comune di Pomezia assegnò un appartamentino al nostro poeta, il quale ci invitò a pranzo per inaugurare la nuova dimora. La pasta era scotta, ma credeteci: era tra le più saporite che abbiamo mai mangiato”!

Simone Apollo

Simone Apollo - Sociologo esperto di America latina, cooperazione internazionale, fundraiser e specialista di SEO e web-marketing per il non profit.

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